Irredentismo tra Sciovinismo e Patriottismo culturale
GLI APPELLI ISTRIANI
Nella seconda metà dell’ottocento l’élite istro-veneta si rese conto che il suo monopolio economico-culturale era finito. Il tempo e il governo austriaco avrebbero lavorato, esclusivamente, a favore dell’etnia slava. Anche a Trieste dove la maggioranza italiana rappresentava il 70%. Soltanto l’annessione dell’Istria ad una Italia risorgimentale, avrebbe potuto scongiurare il pericolo. L’occasione era a portata di mano: la terza guerra di indipendenza, nel 1866. La Prussia di Bismarck intenzionata ad umiliare l’Austria e a stabilire la sua supremazia in Germania, fu l’alleato poderoso capace di attirare e sconfiggere a Sadova il grosso dell’esercito austriaco. L’Italia dotata di un’armata imponente e di una flotta nettamente superiore a quella austriaca, fu umiliata. L’insipienza dei vertici militari in prevalenza piemontesi e della Corona determinò la sconfitta di Custoza. La flotta italiana divisa in due tronconi: sabaudo e napoletano incapaci di comunicare, fu sconfitta dall’ammiraglio austriaco Tegetoff e dalla marineria istro-dalmata, che si esprimeva in “veneziano da mar”, fedele alla casa d’Austria. “A Lissa uomini di ferro su navi di legno avevano sconfitto uomini di legno su navi di ferro” ebbe a dire l’ammiraglio austriaco. In questa occasione risultò chiara l’inconsistenza della classe dirigente risorgimentale, in larga parte superficiale. Il movimento era stato sostenuto esclusivamente da piccoli nuclei senza seguito di estrazione borghese, come afferma lo storico inglese Mack Smith. I contadini che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione italiana erano stati avversi a questi cambiamenti. Ai loro occhi l’Italia risorgimentale rappresentava esclusivamente la riaffermazione del proprietario terriero e del governo ostile, perché di classe. Da Mack Smith “Garibaldi aveva visto coi suoi propri occhi quanti dei veneti si erano rallegrati per il ritorno degli austriaci, dopo un breve intervallo di liberazione nazionale e come spesso avessero disertato dall’esercito italiano”. L’Italia, sempre secondo Mack Smith, la storiografia internazionale e nazionale, era nel 1866 un paese arretrato e povero. Nel 1872 un’indagine parlamentare aveva segnalato come “In vista di Roma 15 mila persone vivevano in grotte in condizioni simili a quelle degli uomini della pietra”. La società italiana era in preda ad un analfabetismo di massa pari all’80% della popolazione. In questa situazione con un esercito e una flotta sgangherati l’armistizio imposto unilateralmente dalla Prussia ci salvò. L’Austria con a disposizione tutto il suo esercito ci avrebbe schiacciato, ed invaso la pianura padana ed oltre. In questo contesto un gruppo di notabili istro-veneti inviò una serie di appelli risoluti al Governo, all’Esercito e alla Marina italiani perché proseguissero il conflitto. I messaggi datati 16 giugno, 13 e 14 luglio ed 11 agosto 1866 contenevano le linee irredentiste che in futuro avrebbero influenzato la politica nazionale determinando l’intervento contro l’Austria nella “Grande Guerra”. I destinatari furono il Re, il generale Lamarmora, capo di stato maggiore, Agostino Depretis, ministro della marina, Emilio Visconti-Venosta, ministro degli esteri e Bettino Ricasoli, presidente del consiglio. Nei documenti si sostiene che l’Istria è completamente italiana. Gli “Unici stranieri che fermarono stanza entro il nostro confine sono gli slavi venuti prima dell’800 (secolo VIII), poi a varie riprese nei secoli sedicesimo e diciassettesimo. Ma i primi slavi del nord, condotti dai Franchi in condizione di servi sebbene avversati a principio dalla stirpe latina, ebbero poco appresso lavoro e libertà sopra suolo istriano e i secondi slavi del sud scampati alla scimitarra del turco furono accolti come ospiti con i quali si divise la casa e la mensa”. Gli slavi delle Alpi Giulie (i Valacchi) sono il risultato della “commistione con il sangue dei veterani latini che stettero a guardia di quel’ importante confine.” Gli autori di questi appelli patriotici continuano a proclamare l’assoluta inconsistenza etnica e culturale dell’elemento slavo. Si tratta di “Slavi di venti e più stirpi … a popolare le terre disertate dalle guerre e dalla pesti pacificamente importativi dai dominatori di queste provincie”. Non costituiscono un problema “Perché sono stranieri fra loro fino a non intendersi ….. essi sono foglie staccate dall’albero di loro nazione, e nessuno per fermo avrà potenza di rinverdirle sul ramo da cui furono scosse. Essi vissero e vivono senza storia, senza memoria, senza istituzioni, tutt’altro che lieti di loro origine e desiderosi di essere equiparati a noi…. ne mancherebbero per sicuro … di votare tutti e di grand’animo, non meno degli italiani, l’unione al Regno d’Italia.” In conlusione: gli slavi istriani sono soltanto degli “ascari” devoti: una sottospecie tribale innocua ed entusiasta di appartenere al Regno d’ Italia.
TRIESTE
Il gruppo irredentista rivendica il possesso della città di Trieste “Non fu veneziana soltanto perché seguì per fatale necessità di tempi altro destino fu costretta a dedicarsi al protettorato degli arciduchi d’Austria quale libero comune che continuò a dominarsi da sé e ad esercitare perfino i diritti internazionali”. Nel 1382, cinquecento anni prima Trieste non sopportando l’egemonismo veneziano si era data alla Casa d’Austria che ne aveva completamente rispettata l’autonomia. E prosegue sostenendo a tutto beneficio della città che “Non può rimanersi congiunta ad uno stato (L’Austria) che ha sì poco interesse economico da tenerla e sì poca voglia e forza di giovarla”. Ma l’annessione presenta un problema consistente che è quello della necessità “Di liberarsi di una masnada di mercatanti senza patria attendati temporaneamente a Trieste e senza peso nei destini del paese”. In questo i patrioti risoluti erano d’accordo con Karl Marx che nel 1857 discutendo di Trieste rilevò che la città era gestita “Da un’eterogenea ciurma di speculatori in prima linea italiani e poi tedeschi, inglesi, francesi, armeni ed ebrei. A partire dal 1711 quando gli Asburgo decisero lo sviluppo della città, le cosidette Tredici Casate: Argento, Baseggio, Belli, Bonomo, Burso, Cigotti, Giuliani, Leo, Padovini, Pellegrini, Tettazzi, Stella e Tofani esaurirono la loro influenza. Avevano gestito per secoli l’autonomia municipale della città. Alla metà dell’ottocento questa oligarchia si estinse. Il loro ruolo fu assunto da questi “mercatanti” che non erano di “passaggio” ma, avevano creato le loro fortune a Trieste. Rappresentavano l’aristocrazia triestina e avevano arricchito la città di splendide dimore incrementandone il prestigio. Avevano, inoltre, in molti casi italianizzato i loro cognomi come l’armatore greco Demetrio Cacciotti, gli ebrei Morpurgo finanzieri detentori di risorse illimitate e i Giustinelli di origine armena. In queste élite cosmopolita spiccavano i baroni von Bruck e armatori come l’americano John Allen. Nel 1866 Trieste era all’apice di uno sviluppo dirompente simile a quello di Amsterdam nel diciassettesimo secolo e di Hong Kong nel ventesimo . Fu completata la ferrovia Trieste-Vienna e un porto “nuovo” che divenne di transito per le merci spedite non soltanto nel bacino danubiano ma a Monaco, Praga, Cracovia. Furono esaltate le attività portuali di supporto: agenzie, società finanziarie, forniture navali ecc. Quattro compagnie di assicurazione e sei banche dominavano la scena finanziaria triestina ed europea. Nell’ottocento gli Asburgo avevano stabilito nella città la sede e il quartier generale della loro potenza marittima contrapposta a quella continentale viennese. Nonostante le pretese irredentiste Trieste non venne considerata città italiana. Nel 1881 E.A. Freeman la considerava “l’equivalente meridionale di Lubecca, Brema o Amburgo”. Lo stesso Giuseppe Mazzini non la includeva nell’Italia unita. Trieste utilizzava una lingua di base vicina al “veneziano da mar” e, per effetto del suo crogiolo municipale, una quantità considerevole di espressioni idiomatiche provenienti dal mondo tedesco e slavo. La sua vocazione e la sua specificità resero autonoma la città . Il Territorio libero di Trieste (T.L.T.) in vigore dal 1945 al 1953 aveva creato l’illusione per parte della cittadinanza di avere un futuro di autonomia. L’annessione all’Italia ha creato, quindi,un evidente malessere. Il movimento Trieste libera-Free Trieste Movement, in data 19 giugno 2013 ha presentato al Consiglio di Sicurezza e ai paesi membri dell’Assemblea dell’Organizzazione delle Nazione Unite la richiesta che la sovranità del Territorio Libero sia distinta da quella della Repubblica Italiana in base al principio che lo Stato Italiano, nel proprio mandato fiduciario internazionale, ha leso in questi ultimi sessantanni gli interessi commerciali e marittimi della città di Trieste. La città ha fondato la sua richiesta di autonomia sulla base della sua specificità: un’isola italiana in un mare slavo. Nella storia europea recente questa anomalia si era verificata in Riga, integralmente tedesca nella Lettonia, Vilnius, enclave polacca in Lituania e Maribor (Magdeburgo) città tedesca in Slovenia.
POLA
Negli appelli si riconosce che “Pola è stata creata dall’Austria con l’intendimento non di difesa ma di aggressione”. Pola è in cima alle pretese espansioniste italiane molto prima di Trento, Gorizia e Trieste. La costa da Trieste a Brindisi è costituita da un “lido basso, piano e sabbioso, senza sviluppo di insenature con rade mal sicure ed ancoraggi pochi ed infidi”. Per cui è “Pola che ci dà pienamente quanto ci occorre: Pola ch’è testa di ponte di Ancona, come già lo fu di Ravenna e di Venezia; Pola che ben può dirsi la Spezia dell’Adriatico, e con una posizione strategica ancor più felice”. Pola, a parte alcuni resti romani, è una città costruita completamente dall’Austria a partire dal 1815 quando raggiungeva a malapena gli ottocento abitanti. Nel 1856 il comandante della flotta austriaca aveva deciso che Trieste era inadeguata come base per la marina militare. Fu scelta Pola e venne strutturata come una cittadella marziale ed imperiale. La minaccia da parte di un’Italia intenzionata ad annettersi Pola e l’Istria accelerò la costruzione di cantieri e caserme. La sede del potere fu l’ammiragliato. La città era abitata da istro-veneti, croati che nel ventennio fascista saranno costretti ad emigrare, e da un consistente gruppo di tecnici e di ufficiali di estrazione nobiliare provenienti da tutto l’impero. Gli “Appelli degli istriani” all’Italia furono scritti da Carlo Combi e ristampati a Milano nel 1886 . Verranno ripescati da Carlo Ojetti e pubblicati nella collana “Problemi italiani” e, in particolare, “Gli istriani a Vittorio Emanuele II” del 1866-Ravà & C editori, Milano. Ripubblicati tra il gennaio e il maggio 1915 furono gli strumenti per sostenere la guerra all’impero asburgico.
GENOCIDIO ISTRO-VENETO
L’Austria reagì, allo scoppio del conflitto, a queste provocazioni e deportò 50 mila istro-veneti: donne, vecchi e bambini. Gli uomini furono inviati al macello in Galizia contro i cosacchi. A Pola il numero degli abitanti precipitò da 42 mila a 12 mila. Furono internati nel K.u.K. (Kaiserlich und Koeniglich -imperiale e reale) Barakken Lager (lager di baracche) austriaci, boemi e polacchi. Il 40% pagò con la vita l’internamento. Anche la famiglia del mio padre biologico subì questo trattamento.
NAZIONE MADRE
I giovani istro-veneti e triestini, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, erano rimasti affascinati dalla figura di Garibaldi: eroe romantico e mito laico in opposizione ad un mondo austriaco immobile e clericale. Garibaldi fu in grado di sedurre l’opinione pubblica europea e di mobilitare al suo fianco uomini entusiasti. La gioventù triestina e giuliana mobilitate dagli appelli socialisti e repubblicani decisero di affermare la loro specificità culturale italiana. Il governo austriaco consegnò all’irredentismo più aggressivo e sciovinista un martire. Giulielmo Oberdan (Oberdank) un idealista sprovveduto, impiccato nel 1880 al grido di “Viva l’Italia. Viva l’Italia libera”. Herman Bahr in “Viaggio in Dalmazia” segnalava questo disagio nei confronti di un comportamento austriaco retorico e burocratico. “Gli italiani vogliono un’università italiana per dare una cultura ai propri figli, e la vogliono a Trieste”. Negarla con la scusa di non creare irredentisti è una scusa inaccettabile. Bahr replica: “Gli irredentisti li allevate Voi, perché ogni italiano d’Austria sarà un irredentista finché in Austria si sentirà straniero. Il governo austriaco temendo che l’egemonia culturale italiana a Trieste fosse pericolosa negò lo stabilimento dell’università. La nostra storiografia risorgimentale ha descritto l’italiano della frontiera orientale come un’entità pervasa dalla necessità di essere redenta. Non si rese conto che l’austriaco di cultura italiana era in grado di comportarsi nel modo del tutto naturale da “homo austriacus” e nutrire sentimenti nazionali. L’attrazione, espressa in diverse sfumature per la realtà italiana era più che etnica, culturale. Enzo Bettiza un dalmata cosmopolita nella sua opera “Esilio” sostiene che l’aspirazione all’italianità, in altri termini la “voglia d’Italia”, si annullò quando il contatto non fu più soltanto virtuale ma reale. La reazione del padre di Bettiza, esponente di una delle vecchie e più note famiglie italiane di Spalato, di fronte all’occupazione e all’annessione italiane della città, nel 1941, fu chiara. La subì come un’onta paradossale e un affronto personale. La violenza e i soprusi generalizzati da parte della forza di occupazione italiana nei confronti degli slavi lo spinse a dire “Non era certo questa l’Italia che aspettavamo”. La stessa reazione che mio padre biologico e la sua famiglia ebbero nel trasferimento in treno da Ancona a Brindisi durante l’Esodo. “Lawrence aveva perso quella luce negli occhi che esprimeva quando, alla fine dell’estate precedente, descriveva l’Italia e immaginava l’accoglienza che sarebbe stata riservata ai profughi giuliani”. L’Italia sarà “matrigna” con lui e la sua famiglia. Si perderanno nella promiscuità e miseria.
In allegato un pdf di PROBLEMI_ITALIANI a supporto di quanto scritto.
Remo Calcich
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