La storia Istriana raccontata da un Istriano

MONDO LATINO

L’Istria per la sua posizione geopolitica visse nei secoli una storia complessa tale da creare una sintesi culturale originale. La fine dell’impero romano la collocò, a partire dal quarto secolo, nell’area bizantina. Rimase assieme a Venezia, per circa tre secoli, subordinata all’Esarcato di Ravenna che governava l’Italia, al posto dell’imperatore. L’Istria si salvò dalle devastazioni e dai saccheggi della guerra greco-gotica e dall’occupazione longobarda. Durante questo periodo di relativa calma i municipi istriani si dotarono di basiliche ricche di marmi, di mosaici e di vasi d’oro e d’argento, doni dell’imperatore greco. La basilica Eufrasiana di Parenzo del VI° secolo, sito UNESCO, è un esempio di arte bizantina che supera, nelle forme legate alla tradizione classica, perfino la basilica di Ravenna. Il che conferma la continuità dell’arte istriana con i suoi valori estetici classici. L’Istria riforniva con le sue navi Ravenna e Bisanzio di grano, olio e vino. Il legato bizantino veniva accolto dalle “élite” e dal popolo istriani con grande onore. La penisola rimase per due secoli sotto la protezione bizantina. La lontananza dalla capitale e da Ravenna determinò non solo l’autonomia ma la prosperità istriana.

LE INVASIONI SLAVE

Nel 568 d.c. i Longobardi occuparono il Friuli e si espansero in Italia. Dietro questo popolo, cinquant’anni dopo, nel 610, attraverso il varco alpino si affacciarono gli Slavi. In un decennio le avanguardie di questo popolo proveniente dal centro della Russia si abbatterono per tre volte sull’Istria. Come sostenne il professor Francis Conte, ordinario di civiltà russa della Sorbona, l’avanzata degli slavi costituì un maremoto. Nel sesto e settimo secolo gli slavi come una immensa colata estesa per oltre mille chilometri si spinsero fino al mare Adriatico. Nello spazio di un secolo modificarono gli equilibri etnici e politici, i modi di vita e la cultura nell’Europa centro orientale. Secondo i linguisti l’influenza slava fu tale da mutare la toponomastica tedesca. Il nome di Berlino non proviene dall’orso raffigurato nello stemma cittadino, ma deriva da una vecchia parola slava: berlo (bastone- palo). Si tratterebbe di un luogo circondato da pali. Lipiza è la città dei tigli (lipa) e il cognome del celebre filosofo tedesco Leibniz ha la stessa derivazione. Nel cuore della germania, in Lusazia, sopravvive ancora una minoranza slava consistente: i sorbi (serbi). Fu l’irresistibile crescita demografica a spingere questo popolo alla ricerca di superfici coltivabili sempre più vaste e di pascoli adeguati. Carlo Magno bloccò questa marcia proveniente dall’oriente europeo e impose il suo dominio in Istria. Come logica conseguenza della conquista impose il regime feudale. Si trattò di una svolta totale.

IL PLACITO DI RISANO

La costituzione municipale romana si era mantenuta per otto secoli. Con i carolingi l’Istria divenne una delle contee franche. A capo fu posto il duca Giovanni, responsabile di una serie di violenze, esazioni arbitrarie, costrizioni a servizi umilianti, nei confronti del popolo istriano. Gli istriani perdettero la proprietà dei campi, dei boschi, dei pascoli e delle peschiere. I contadini furono ridotti a “servi della gleba”. Per impedire le prevedibili rivolte dei latini, il duca introdusse nel suo dominio consistenti gruppi di slavi armati. Gli istriani non poterono tollerare che le decime ecclesiastiche da loro pagate fossero destinate al mantenimento di slavi pagani. Nella loro disperazione si rivolsero per avere giustizia a Fortunato, patriarca di Grado, amico intimo di Carlo Magno e, quindi, personaggio influente. Chiesero che venisse limitato lo strapotere del duca Giovanni. In un giorno di primavera dell’804 fu organizzata un’assemblea solenne“Placito” nella piana del piccolo fiume di Risano, nei pressi di Capodistria. Si trattò di un evento storico che influenzerà per sempre i rapporti tra l’elemento latino e quello slavo. Lo storico Giuseppe Cuscito lo descrive: “Cosi per comando di Carlo Magno e del figlio Pipino, re d’Italia cui la nostra provincia era immediatamente subordinata giunsero in Istria tre missi dominici….. per verificare gli arbitrii commessi dal Duca e dai Vescovi contro il popolo e i deboli”. “Alla presenza del patriarca di Grado, dei vescovi istriani e di numerosa turba di popolo, i messi di Carlo tennero il solenne placito e, scelti 172 homines capitanei tra i migliori delle singole città e castella, iniziarono l’inchiesta”. A conclusione del “placito” gli istriani ebbero parziale soddisfazione con un alleggerimento degli oneri feudali. Con questo accordo si sancì la definitiva scomparsa delle istituzioni romano-bizantine che avevano retto per un millennio. Se la conquista franca costituì una diga di fronte ad ulteriori invasioni slave al di là delle Alpi, il placito stabilizzò in Istria l’elemento slavo utilizzato, in precedenza, come ausiliario dell’esercito franco. Lo rese stanziale ed agricoltore. Fu il nucleo originario di una nazione slava che con gli arrivi del sedicesimo secolo diventerà maggioritaria.

VENEZIA, CULTURA MADRE

Nel nono e decimo secolo Venezia intraprese una lotta risolutiva contro i pirati saraceni e narentani (dalmati) e pose le basi della sua supremazia nell’Adriatico diventato cosi il Golfo di Venezia. Ai fini della sua volontà egemonica si impose l’annessione della penisola istriana: prima tappa di appoggio nelle rotte verso il mezzogiorno e il Levante, Nella ricerca di protezione le città istriane stipularono con Venezia trattati di “Fidelitas”: un vincolo sostanziale di vassallaggio sul mare. Con il venir meno dei vincoli feudali e del dominio formale del Patriarcato di Aquileia, i borghi istriani avevano goduto di una evidente floridezza descritta dal grande viaggiatore arabo Edrisi nel suo “Libro del re Ruggero”. Nel 1307 il patriarca di Aquileia cedette a Venezia tutti i diritti formali detenuti fino a quel momento nei confronti dell’Istria. I comuni istriani furono, cosi, costretti a rinunciare alla loro individualità politica a favore della Serenissima. Venezia esercitò il suo controllo sull’amministrazione comunale mediante un podestà scelto fra il patriziato veneziano. L’interno istriano, un quarto della penisola, entrò nei domini dei conti di Gorizia e, successivamente, della casa d’Austria. Il potere reale fu esercitato dal clero di Pisino che lo detenne fino ai nostri giorni. Se le città costiere entrate nella circolo veneziano godettero di uno sviluppo evidente, l’interno rimase condannato alla miseria e al sottosviluppo. I vuoti provocati dalla peste nel ‘500 costrinse i conti di Gorizia ad importare dalla Carniola e dalla Carinzia molti coloni slavi che gli istriani chiamarono spregiativamente “Cransi”.

FALSO STORICO

Alcuni storici come Sestan sostengono, a mio avviso, incautamente, che il dominio veneziano fu causa della decadenza istriana. Questo giudizio parte dalla constatazione che le città istriane subirono lo “stesso fenomeno che colà le città venete-lombarde che una volta assoggettate alla Dominante cadono in preda di una vita mediocre perché a tutto ci pensa il podestà veneziano”.

MACHIAVELLI

Il segretario fiorentino Nicolò, sostenitore di Valentino Borgia: un criminale che agevolato da suo padre, il più infame tra i Papi, Alessandro XIII, aveva imperversato alla fine del ‘400 tra la Romagna e le Marche, fu ferocemente antiveneziano. Lamentava che i veneziani “In preda ad una libidine di dominio … avevano presupposto nell’animo d’aver a fare una monarchia simile alla romana”. Immediatamente dopo la sconfitta veneziana di Agnadello nel 1509,dopo essersi rallegrato dell’eventuale e prossima scomparsa di Venezia, si rese conto che se le oligarchie delle città lombardo-venete tradivano Venezia “il popolo, la plebe, i contadini sono tutti marcheschi”.

LA PROSPERITA’ VENEZIANA

Fulvio Salimbeni sostiene che l’Istria “Non è affatto quella morta gora culturale… come d’altro canto l’Italia del seicento e settecento pullula di iniziative culturali, di fenomeni che a lungo svalutati e disprezzati o derisi… stanno emergendo”. In realtà Venezia fu fonte di uno sviluppo economico i cui effetti sono evidenti tuttora. Nel retroterra lombardo-veneto aveva contribuito al rilancio di attività industriali senza pari. Le armi di Brescia prodotte da duecento fabbriche del territorio rifornivano l’intera Europa e, in primo luogo, le potenze dominanti come Spagna e Francia. Verona e Vicenza si affermarono come monopoliste europee nella lavorazione della pietra dura. Vicenza visse nel sedicesimo secolo il suo secolo d’oro e impose Palladio come uno degli architetti più interessanti dell’era moderna. Padova diventò non soltanto il centro culturale più importante della Serenissima ma fu in grado di attirare, come sede universitaria unitaria tra le più prestigiose, studenti da tutta l’Europa. Dal cinquecento fino alla sua fine Venezia intraprese grandi interventi di bonifica con migliaia di ettari ricuperati nella terra ferma e destinati alla coltivazione di colture privilegiate . Tutto questo per dimostrare che la Dominante non si era limitata a controllare il suo dominio, ma che nei secoli lo aveva arricchito .

ISTRIA: IMMAGINE VENEZIANA

Nonostante che Venezia avesse imposto il suo dominio, visse con l’Istria, pietra angolare del suo Commonwealth, in perfetta simbiosi. I palazzi, le chiese veneziani furono creati con i bianchi blocchi della pietra istriana. I “taiapietre” istriani che avevano scolpito gli stemmi sugli architravi e le colonnine d’altare delle chiese, si recavano nella maturità a Venezia a cercare fama e fortuna. Il legno pregiato dei boschi istriani, dopo essere stato la base per le fondamenta dei palazzi veneziani, fu la linfa della potenza navale veneziana. Dalla foresta di Montona, a ridosso della valle del fiume Quieto, i tronchi venivano trasportati, dal fiume o tramite carri per via terra, fino al mare. Le galere veneziane si componevano nel piccolo fiordo creato dal fiume. Venezia costruì l’Istria a sua immagine. Lo “ skyline” istriano è esclusivamente veneziano. La Serenissima ricostruì i porti della penisola . Potè cosi contare per il suo intenso traffico marittimo sui piloti “peoti” che conducevano le navi lungo la costa istro-dalmata evitando le insidie degli isolotti e delle scogliere subacquee. Furono gli antenati degli skipper impegnati, ai giorni nostri, a guidare yacht e navi da diporto nelle marine istriane. Come si ricava da fonte istro-croata, non predisposta ad esaltare la presenza veneziana in Istria, risulta evidente la capacità di Venezia di promuovere fino alla sua fine lo sviluppo istriano, cosi Drago Orlic nel suo “Saluti da Parenzo”. Sostiene “Da documenti del 1680 si può notare quali sforzi siano stati fatti dalla Repubblica per ampliare il porto “di Parenzo” con opere edili, attrezzandolo per l’approdo di grandi navigli”. “Il senato (veneziano) deliberò… tutti i preparativi per lo scavo del Canale. Il Canale che si estendeva a ridosso delle mura cittadine di terraferma doveva servire, tra l’altro, come rifugio per barche minori e da pesca. Ma questo progetto aveva lo scopo principale di aumentare la difesa della città e di eliminare quella fascia di terra malsana e paludosa”. Orlic descrive come nel 1770 Venezia con ingenti investimenti allargò il perimetro della cittadina di Parenzo dotandola dell’imponente chiesa “Madonna degli angeli” e di un centro degli affari. E tutto questo a vent’anni dalla sua fine dimostra clamorosamente la vitalità veneziana nel settecento. In Istria bonificò le campagne. L’arricchì di fontane perenni e di “ fonticchi”, edifici che accumulavano le biade per i tempi di guerra, le carestie e le epidemie.

MELTING POT ISTRIANO

Nel quattrocento e nel cinquecento le popolazioni istriane subirono l’offensiva turca. L’Italia meridionale e quella centrale per reagire si munirono di una costellazione di castelli e fortificazioni. Venezia impiegò enormi investimenti di capitali per mantenere una squadra navale temibile e sempre efficiente. La Serenissima considerò l’Istria un punto fermo per il contenimento della minaccia turca. Nella penisola balcanica la penetrazione dell’esercito ottomano per minacciare Vienna era stata causa dallo spopolamento dei territori attraversati. Venezia capì la lezione e decise di ripopolare l’Istria. Il tentativo di convogliare coloni veneti dalle zone depresse del Veneto fallì. La flotta veneziana prelevò sia i cristiani che si erano rifugiati nelle sue fortificazioni che le popolazioni delle isole Egee occupate dal turco. L’insediamento, nelle zone interne, di greci, morlacchi e slavi ormai senza patria, fu positivo perché utilizzò esuli disposti a difendere strenuamente, per riconoscenza, le frontiere veneziane. Diventarono le milizie più sicure e fidate di San Marco. I reggimenti degli “schiavoni” capitolarono di fronte al nemico francese soltanto dopo l’avvenuto sgretolamento di Venezia. Questi rifugiati in arrivo in Istria subirono la “quarantena” negli isolotti davanti a Parenzo oppure su galeoni ancorati in baie non accessibili. Ai neo-arrivati furono concessi i terreni del parentino e del polese abbandonati da decenni ed usati per il pascolo. Questi terreni dovevano essere lavorati entro i cinque anni dall’ottenimento. Per ulteriori venti anni i neo proprietari venivano esentati da “corvée” e carichi fiscali. Le popolazioni autoctone accolsero con diffidenza i nuovi abitanti. Erano esasperate perché si sentirono discriminate in quanto erano obbligate a sostenere obblighi lavorativi e fiscali. Sorsero conflitti per l’utilizzo dei pascoli, degli abbeveratoi e dei boschi dove alle comunità era concesso raccogliere la legna. Molto spesso i contadini autoctoni guidati dal podestà si sollevarono per costringere gli “intrusi” a rinunciare ai loro privilegi. Nonostante questi ed altri inconvenienti l’esperimento lungimirante veneziano di ripopolamento, funzionò. Le campagne furono salvate dal degrado. L’Istria con le sue colture specializzate dell’olio e del vino raggiunse la prosperità. Tutto il complesso economico istriano ne beneficiò Le comunità immesse furono, in parte, assorbite ed assimilate.

I VALACCHI

Un discorso a parte è riservato ai valacchi denominati “cici” che popolarono per secoli gli altopiani dell’Istria nord-orientale. Nei confronti di questi pastori migranti provenienti dalla Romania, gli istro-veneti e perfino gli istro-sloveni e croati espressero disagio e intolleranza. I valori valacchi erano estranei sia alla cultura istro-veneta che a quella slava. Alla metà del ventesimo secolo la scrittrice Lina Galli descrisse  con tinte fosche questo popolo che rifiutava sia la civiltà cittadina che quella rurale e privilegiava un rapporto diretto con la natura che faceva parte del suo “habitat”. Accusò, senza fondamento, i valacchi di aver provocato il degrado dei boschi istriani con disboscamenti indiscriminati, dimenticando il controllo ferreo attuato sia dall’amministrazione veneziana che da quella austriaca, che si dividevano l’Istria. Affermò: “ Non coltivavano la terra e contribuirono con le loro capre e con il taglio sregolato della legna da fuoco a devastare i boschi che coprivano l’altopiano. Si rifiutavano di raccogliersi in villaggi e preferivano vivere in solitudine in sparsi casolari”. I valacchi erano sì dei carbonari esperti, ma svolgevano quella attività proficuamente e su incarico delle comunità stanziali slave ed istro-venete. Un viaggiatore francese, Carlo Yriarte, nel 1874 nella sua visita a Trieste considerò la comunità dei cici antropologicamente esotica. Affermò: “Mentre lo slavo è d’ordinario silenzioso e riservato, il cicio rivelerebbe l’origine valacca con la sua esuberanza e loquacità”. Di chiara cultura lombrosiana, il francese continuò “I lineamenti del viso presentano non di meno segni variabili: fronte bassa e piatta, occhi neri e brillantissimi, gote prominenti con zigomi molto risentiti; le donne hanno quasi tutte il naso affilato e rivolto all’insù con faccia piatta e tonda. Il cicio vive senza istruzione, senza educazione e senza memorie. Non pensa né a ieri né al domani; sua industria è far doghe da botti e fabbricar carbone; pasce le pecore. A Trieste il cicio si diverte, ciarla, beve e canta senza il timore reverenziale che l’istriano ha nei confronti di questa città cosmopolita. I villaggi dei cici sono miserabili. Hanno una morale facile favorita dalla natura estroversa e nessuna nozione di proprietà…. . Pigliano ciò che possono: nelle città, la polizia li sorveglia da vicino: nella campagna i loro istinti sono conosciuti. Il cicio è cattolico “nominalmente”, ha delle superstizioni, in realtà è animista”. I ciribari appartenenti all’etnia valacca erano stanziati nell’albonese a sud della Ciceria. Con grande soddisfazione il cronista francese stabilisce la differenza tra i valacchi autonomi e quelli (addomesticati) aggregati al mondo slavo di Albona. “Hanno scuole e l’Austria compie lentamente ma sicuramente la sua opera civilizzatrice. Le loro capanne sono divise in due parti, una per le bestie l’altra per loro… . Mancano di camino e di focolare, il fumo esce dalla porta. Si lavorano a maglia le proprie vesti adoperando lana bianca pei calzoni e lana bruna per il resto senza tingerla. Completa stesso tempo l’abbigliamento un berretto di lontra o di volpe adatto per far fronte al vento terribile che normalmente imperversa sull’altipiano”. Un popolo sospetto e discriminato.

LE MIE RADICI VALACCHE

Ho avuto la fortuna di vivere parte dell’infanzia nella mia famiglia valacca. La foto di copertina di “Italiano con la coda” rivela la mia provenienza. Gli antenati di mio nonno vivevano sull’altopiano e raggiungevano la costa sia per la transumanza che per fornirsi dell’aceto prodotto a Parenzo e che distribuivano in tutto l’impero austro-ungarico. In altri termini una comunità estremamente mobile e dinamica. Le famiglie valacche sotto la pressione demografica emigravano o sceglievano di diventare stanziali stabilendosi sulla costa come, alla fine del diciottesimo secolo, decise il mio bisnonno. La leggenda narra che il “capostipite” abbia portato con sé dalla Ciciaria mille pecore. Con il ricavato della vendita di ottocento comprò un vasto terreno sul quale costruì la piccola stanzia dividendo razionalmente il suo spazio: una stalla calda ed accogliente e l’abitazione. Conservò le rimanenti duecento come attività secondaria alla coltivazione della terra. In alcune sere invernali il nonno dava ospitalità a cantastorie “cici” vaganti che narravano di eroi mitici alle prese con imboscate duelli e faide. In mancanza di documenti scritti i cantastorie erano la nostra memoria orale indispensabile per la nostra identità. Lo sfondo dei racconti erano gli spazi enormi balcanici composti da pascoli infiniti, fiumi invalicabili in mezzo a tormente di neve. Dalla fine del ‘300 per alcuni secoli i valacchi fornirono al turco alla conquista di Vienna, la carne dei loro greggi. Alla fine del cinquecento il ruolo di supporto valacco all’esercito ottomano venne meno. L’Austria agevolò il loro trasferimento sull’altopiano istriano. Nel nostro insediamento il pozzo esterno che serviva a dissetare il bestiame fu fondamentale. Quando l’acqua del pozzo si esauriva accompagnavo il nonno a prelevarla in uno stagno a ridosso del mare. Riempivamo delle botti da vino che mio nonno confezionava durante l’inverno. Con l’occasione non mancavamo di fare scorta delle anguille che pullulavano nella piccola pozza d’acqua e che la nonna cuoceva in carpione: splendido cibo per le vigilie e i venerdì. La parte abitativa della piccola stanzia era composta da un pianterreno con un salotto arredato in modo spartano. Al centro della stanza un tappeto celava l’apertura di un pozzo profondo di acqua potabile. Il salotto sfociava in una cucina molto vasta che fungeva da deposito per i grani e le caciotte di formaggio. Mio nonno, al contrario di quanto sostenuto dagli antropologi citati e male informati, era un uomo capace di muoversi molto bene nella società moderna di allora senza rinunciare ai valori valacchi . Aveva inoltre il vantaggio di adeguarsi completamente all’ambiente naturale istriano meglio del borghese istro-veneto e del contadino slavo. Posta al confine tra il mondo culturale istro-veneto e slavo ne era la conferma. La sua unione con una donna ceca portatrice di una cultura slava e cosmopolita lo elevò e gli diede prestigio tale da rendere la sua famiglia punto di riferimento, ad Orsera e nel contado, sia dei contadini slavi che dei pescatori istro-veneti. Conservo una sua foto scattata prima della partenza per la Galizia, nel sud polacco, nella “Grande Guerra”. Potrebbe essere confuso benissimo con i rampolli della migliore borghesia mitteleuropea. In piena maturità durante la seconda guerra mondiale rischiò la vita per procurare cibo, tessuti e strumenti di lavoro alla famiglia allargata a venti componenti. Vivevamo nella zona costiera istriana controllata dai nazi-fascisti. Il nonno per muoversi si era munito di un “lasciapassare” tedesco e contemporaneamente, tramite le sue conoscenze partigiane aveva ottenuto un documento idoneo per operare nel retroterra: zona controllata dai partigiani. Caricava sul carretto il sale proveniente dalle saline di Orsera e lo mimetizzava sotto le pannocchie di mais o le melecotogne o altra frutta e lo barattava. Otteneva tra l’altro il prosciutto istriano più pregiato, quello di Coridigo. Gli capitò in una di queste operazioni di essere intercettato da una pattuglia tedesca mentre proveniva dalla zona partigiana. Riuscì a far sparire il compromettente permesso partigiano in una fenditura di un provvidenziale muro campestre. Non evitò, però, la caduta di un masso che smosso, gli fratturò la mano destra. In questo modo superò il controllo tedesco ed evitò la fucilazione. Il prosciutto del nonno molte volte finiva anche nel piatto del comandante nazista sudeto che sapeva esattamente da dove proveniva quella delizia e chiudeva, per un suo tornaconto, tutte e due gli occhi. Nonostante le contrapposizioni ideologiche il comandante comunicava in boemo con mia nonna e lei, versata nelle pubbliche relazioni, gli preparava i gnocchi di marmellata di prugne passati nel burro e nella cannella.

D.N.A. VALACCO

Questa vocazione a vivere duramente era nel D.N.A. della famiglia materna valacca. Il visitatore francese citato nel suo reportage sul popolo valacco, che considerava esotico, afferma: “La sua futura compagna deve porsi sulle spalle una soma troppo grave per le sue forze e tuttavia valicherà le balze scoscese, i passi pericolosi col dorso curvato, ma continuando sempre a fare la calza di lana dal villaggio alla città, ché venda il suo carico senza possibilità di riportarlo indietro. Nel libro “Maria” dedicato dal mio patrigno a mia madre, si narra come questa giovane di sangue valacco si era proposta di raggiungere l’autore: ex ufficiale italiano agli ordini dei nazisti, percorrendo in un modo avventuroso e pericoloso l’intera Jugoslavia devastata dalla guerra. In questo modo salvò il suo uomo. Per finanziare il suo progetto di viaggio iniziò con un patrimonio di mille lire, pari ai cinquecento euro attuali. Acquistò a Trieste con quel denaro la merce che era richiesta nei piccoli villaggi istriani dell’entroterra. In particolare si fornì di merce come la soda, necessaria per la fabbricazione in famiglia di sapone, filo da cucire, calze, fiammiferi. Questa fragile donna percorse a piedi attraverso strade inesistenti persino trenta km. al giorno riposando in luoghi improvvisati. Dopo la vendita dell’intera merce, nel suo primo tour istriano, il suo patrimonio era diventato di 2.500 lire pari a un salario operaio di tre mesi. Percorse in lungo e largo la penisola balcanica per tutto il 1945 e metà del 1946. A Batteria Brin, Brindisi, dove fummo relegati una volta abbandonata l’Istria, il sussidio governativo saltuario e miserabile obbligò mia madre a praticare la borsa nera. Ogni due settimane partiva per Bologna, Venezia e Trieste trascinandosi dietro carichi enormi. Il contrabbando era un’attività complessa e pericolosa. Si rivolgeva ai fornitori: mediatori e contadini, per acquisire olio e tabacco. In treno rimaneva sempre allerta per evitare di essere derubata e per eclissarsi prima di essere bloccata dalle forze dell’ordine impegnate a stroncare il contrabbando. Dopo le giornate stressanti e le notti insonni ritornava alla base completamente disfatta. E tutto per assicurare a me e a mia sorella la sopravvivenza.

FINE DI UN POPOLO

La frantumazione dell’impero austro-ungarico bloccò gli spazi vitali del popolo valacco che abbandonò il suo territorio e si inurbò a Trieste, Fiume e, sopratutto, si stanziò nella costa istriana mescolandosi con l’etnia slava seguendo l’esempio del popolo etrusco confluito in quello romano. Durante il secondo conflitto mondiale l’occupazione nazi-fascista dell’altipiano cicero: santuario della resistenza partigiana, fu devastato. Le misere dimore valacche furono incendiate e gli abitanti eliminati. La famiglia del nonno materno, quella che cinquant’anni prima non aveva seguito il bisnonno nel suo trekking per la costa istriana, venne sterminata. Si salvò soltanto un giovane secondo cugino del nonno che, alla fine degli anni quaranta, si sistemò ad Orsera. Lo incontrai trentanni dopo . Mia moglie notò la straordinaria rassomiglianza delle nostre strutture corporee.

L’AMALGAMA ETNICO

Agli inizi dell’era moderna i comuni istriani mantenevano la loro cultura istro-veneta e assimilavano l’elemento slavo perché il suo acculturamento passava attraverso l’assorbimento della cultura latino-veneziana a tal punto che, volutamente, latinizzava e italianizzava i suoi nomi. Il Concilio di Trento nell’ambito della sua ristrutturazione organizzativa ed ideologica predispose visite pastorali obbligatorie sul territorio seguite da relazioni che descrivevano le società visitate. Un documento fondamentale per cogliere l’evoluzione del processo etnico istriano di fusione tra l’elemento latino e quello slavo fu la visita apostolica del cardinale Agostino Valier, ordinata dal Pontefice. Questo documento fornì alla fine del cinquecento un resoconto estremamente documentato. Una miniera di notizie che definì la consistenza demografica e l’identità degli abitanti (istro-veneti e slavi presenti all’interno), l’organizzazione territoriale e il patrimonio artistico. Il resoconto inoltre conteneva indicazioni sul linguaggio usato e le espressioni dialettali. L’Istria era zona di frontiera con il mondo protestante e, quindi, veniva considerata area strategica per la cattolicità. In quel periodo lo Stato non faceva ancora censimenti e non aveva registri della popolazione. Le parrocchie annotarono le vicende, gli eventi della vita quotidiana tali da cogliere i momenti di crescita e di declino dovuto a carestie, pestilenze e registrare l’arrivo di nuove comunità.

LA CULTURA ISTRIANA

L’Istria in simbiosi con Venezia ne ha vissuto completamente l’essenza civile. Padova capitale culturale della Serenissima attraeva schiere di studenti e dotti istriani. Al loro rientro nella penisola facevano circolare ampiamente la cultura umanistica. I testamenti istriani di quel periodo attestano la presenza di ricche biblioteche private. Il mondo culturale istriano non si sottrasse allo scambio con il mondo germanico quando nel cinquecento sorse il movimento protestante. L’Istria ne fu coinvolta. Pier Paolo Vergerio istriano di Capodistria, nunzio apostolico in Germania, divenne uno dei più convincenti teologi della Riforma. Fu contrastato dall’istriano Girolamo Muzio polemista e autore di numerosi testi della Controriforma. Anche Matteo Flaccio illirico (croato latinizzato) aderì alle idee protestanti ed ebbe la cattedra di greco ed ebraico a Wittemberg. Scrisse la più completa storia della chiesa. Istriani furono geografi come Pietro Coppo e il musicista Andrea Antico che si impose alla corte papale. Questa ricchezza culturale istriana e la sua continuità venne espressa da Gian Rinaldo Carli riformista del settecento, alto funzionario della casa d’Austria, cattedratico a Padova ed amico del Verri. Punto di riferimento delle élite europee ed istriane il Carli con le sue opere introdusse le idee degli illuministi francesi ed europei.

VENEZIA PER SEMPRE

Per Venezia tutti i sudditi erano eguali purché fossero fedeli alle leggi della Serenissima. La lingua e la razza non comportavano né intolleranze né discriminazione. Le leggi erano pubblicate su più colonne affiancate con il testo riportato in latino, veneziano e, a seconda dei diversi territori, in slavo e in greco. La fine di Venezia provocò nelle popolazioni istro-dalmate uno shock insanabile. Da “Italiano con la coda”: “Alle bocche di Cattaro, al confine tra la Croazia e il Montenegro la popolazione, orgogliosa delle vittorie conseguite con Venezia, cadde nella disperazione. Il conte Giuseppe Viscovich, ultimo capitano di Perasto, depose sull’altare maggiore della cattedrale il vessillo di San Marco come una reliquia. In dialetto dalmata, di squisita impronta veneziana, proclamò: In sto amaro momento, in sto ultimo sfogo de amor, de fede al Veneto Serenissimo Dominio el gonfalon dela Serenissima Repubblica ne sia de conforto, o cittadini che la nostra condotta passada, che quella desti ultimi tempi rende più giusto sto  atto fatal, ma virtuoso, ma doveroso per nù… . Perasto ha degnamente sostenudo, fino all’ultimo, l’onor del Veneto Gonfalon… deponendolo bagnà del nostro universal amarissimo pianto… . Sigilleremo la nostra gloriosa carriera corsa sotto il Serenissimo veneto governo. Per 377 anni la nostra fede e il nostro valor l’ha sempre custodia per terra e per mar… . Per 377 anni le nostre sostanze e il nostro sangue, le nostre vite le xè sempre stae per ti, o San Marco; e felicissimi xè avemo reputà, ti con nù, nù con ti; e sempre con ti sul mar nù semo stai illustri e virtuosi. Nessun con ti n’ha visto scampar, nessun con ti na visto vinti a paurosi”. Questo patriota dalmata reagì come Rutilio Numaziano che rivolgendosi alla “città eterna in preda ai barbari proclamò nel “Dereditu suo” Tu facesti una sola patria delle genti più diverse fu per loro un beneficio averti Dominante e partecipare al tuo diritto”. L’Istria insorse. Il 7 giugno 1797 come riportato da Lina Galli : “Il volto dell’Istria attraverso i secoli”, a Rovigno le campane di S.Eufemia chiamarono a raccolta la popolazione. Tutti vi si affrettarono. Nella chiesa si alzavano gli stendardi delle confraternite e la bandiera giallo-azzurra dell’Istria. Il Consiglio universale dei Capi famiglia “più di un migliaio decise di restare uniti a Venezia, di opporre resistenza armata all’invasione francese e di costituire un governo democratico. Lo giurarono sul Vangelo e poi tutti si abbracciarono”. Il rimpianto di una civiltà, come quella veneziana, in grado di svuotare i nazionalismi, di trasmettere creatività, l’orgoglio dell’appartenenza, la certezza del diritto, di anteporre l’interesse collettivo come un bene comune e farne il contenuto di una “patria comune” accompagnerà le genti adriatiche memori di aver fatto parte dello “stato da mar” Benedetto Marcello, qualche decennio prima della fine di Venezia, aveva espresso liricamente lo svanire di un mondo irripetibile . Nel fascino sottile del suo “Concerto per oboe” ripreso da Sebastian Bach e Leitmotiv” di “ Anonimo veneziano” si coglie una nostalgia sublimata e tale da far emergere un sentimento di perdita incommensurabile ed assoluta.

VENEZIA E AMSTERDAM

Venezia e Amsterdam: due entità analoghe con destini diversi. Alla metà del seicento la Repubblica delle Provincie Unite, l’attuale “Olanda”, dove Amsterdam giocava un ruolo preminente, subì un tracollo rilevante determinato dal calo delle sue esportazioni dovuto all’arresto demografico europeo e al protezionismo da parte delle grandi potenze europee. Venne attribuita la responsabilità all’oligarchia mercantile e al venir meno del suo dinamismo. Cosi che nel 1794 fu facile per i francesi imporre il loro dominio sull’Olanda. La giustificazione di questa invasione fu quella di sostenere che la Repubblica era completamente marcia e, quindi, andava eliminata. Sulle sue ceneri, nel 1815, con il Congresso di Vienna, alla Repubblica delle Province Unite subentrò il Regno dei Paesi Bassi. Si stabilì la continuità politica con la Repubblica proclamando il figlio dell’ultimo Stadhouder (Presidente) Re. Fra l’altro il Regno venne ingrandito con l’annessione delle Fiandre. La Repubblica data per morta dai suoi nemici fu ceduta all’Austria. Le Provincie Unite diventate Regno dopo l’occupazione napoleonica si sono trasformate in uno stato moderno, sovrano. Venezia fu annientata e cancellata per sempre. La città ha dimostrato dopo cinquantanni dalla cessione della sua indipendenza, una vitalità sorprendente. Durante la prima guerra di indipendenza dal 22 marzo 1848 al 22 agosto 1849: diciassette mesi, più di cinquecento giorni, il popolo veneziano guidato da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, resistette all’assedio austriaco. Al confronto la resistenza della Repubblica Romana, di Milano e di Brescia sono eventi marginali. Il vaiolo e la fame sconfissero Venezia. Il 30 dicembre 1847 prima della ribellione all’Austria Daniele Manin e Nicolò Tommaseo rivendicarono il passato e l’identità veneziana e il principio unitario (italiano). Va ricordato che Nicolò Tommaseo è quel dalmata, slavo per linea materna, che ha contribuito per primo a valorizzare, con il suo vocabolario, la lingua italiana. Daniele Manin, voce inascoltata dal Risorgimento individuò il ruolo che Venezia avrebbe dovuto assumere nell’unità dell’Italia. “Ma non basta aver abbattuto l’antico governo, bisogna altresì sostituirne uno nuovo, e più adatto ci sembra quello della repubblica che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti. Con questo non intendiamo già di separarci da nostri fratelli italiani, ma anzi formeremo uno di quei centri che dovranno servire alla fusione successiva a poco a poco di questa Italia in un sol tutto”. A Risorgimento concluso possiamo sintetizzare che Casa Savoia e i giacobini, spina dorsale del Risorgimento, hanno fatto di un grande progetto una misera cosa svuotando il primato della cultura italiana. Lo dico con Alvise Zorzi, immenso ed aristocratico storico veneziano”. Dopo aver segnalato come Venezia fosse stata denigrata dalla propaganda e dalla produzione letteraria francese ed austriaca come “alibi” per la sopraffazione compiuta, con amarezza segnala la “Disinformazione sistematica alla quale l’Italia post risorgimentale, non ha saputo né voluto opporsi, non rendendosi conto del vantaggio che certamente sarebbe derivato allo sviluppo del senso civico e della maturità politica nello stato unitario da tanti esempi offerti dalla Serenissima in tanti momenti della sua travagliatissima storia.

L’ISTRIA AUSTRIACA

Con la fine della sovranità veneziana l’Istria, inserita in Austria e nella mitteleuropa, fece parte di una entità amministrativa con capoluogo Pisino. Il peso demografico dell’Istria interna popolata nella sua quasi totalità da slavi, ebbe l’effetto di cancellare l’egemonia politica istro-veneta. Secondo la storiografia italiana tale operazione fu attuata premeditatamente da Vienna. Tale versione trascura e minimizza il fenomeno che alla metà dell’ottocento investì l’impero austro-ungarico: l’emergere della coscienza nazionale slovena e croata. Da quel momento gli opposti nazionalismi contrapponendosi elaborarono i concetti della superiorità della maggioranza a svantaggio dalle minoranza. Queste conflitti diventarono esplosivi e tali da condizionare, fino ai nostri giorni, negativamente le società multietniche.

RISVEGLIO SLAVO

A partire dalla seconda metà dell’ottocento il movimento slavo istriano si organizzò culturalmente. Dal 1866 al 1911 in cinquantanni furono avviate novanta biblioteche: due terzi croate e un terzo slovene. Le sale di lettura dislocate in ogni piccolo borgo completarono il quadro culturale. Si sviluppò l’attività editoriale e sotto la spinta dei maestri slavi e del clero capeggiato dal vescovo Giorgio Dobrila, l’etnia croata assunse un peso politico nella dieta istriana e nel parlamento di Vienna. Questa spinta culturale portò alla costituzione di nuclei di borghesia urbana slava in grado di sfidare l’egemonia economica-culturale istro-veneta. Venuto meno il fenomeno di assimilazione, cessò di essere maggioritaria. Secondo le statistiche basate sull’uso della madrelingua gli italiani costituivano quasi il 40% dell’intera popolazione istriana.

Remo Calcich

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- 25 Maggio 2015