CASA ROSSA, ALBEROBELLO – deportazione del popolo istriano e dalmata

Casa Rossa, Alberobello

La storia pugliese di questo ultimo secolo è contrassegnata da contrapposizioni insanabili  e violente.

PRIMORDI FASCISTI

Il 23 marzo 1919, tre anni e mezzo prima della “marcia” su Roma in un circolo di piazza S. Sepolcro di Milano, messo a disposizione da “Alleanza Industriale”, si formò lo stato maggiore dei fasci italiani.

Il movimento definito sansepolcrista , antisocialista costituito da arditi ed ex combattenti, sostenuto finanziariamente da importanti gruppi industriali ed agrari nazionali e costituì la “cabina di regia” del fascismo.

Il barese, Michele Costantino, fu uno dei suoi protagonisti e fondatore dei fasci di combattimento: strumento dell’avanguardismo militare.

Plasmò l’intera comunità barese e, di riflesso, quella pugliese.

Durante la seconda metà degli anni venti e negli anni trenta il suo dinamismo fascista lo porterà all’estero a costituire a New York il circolo educativo “Sansepolcrista”.

Alla sua morte, nel 1937,  l’establishment finanziario ed industriale barese istituirà la fondazione “Sansepolcro” la cui rendita annuale, pari agli attuali 20 milioni di euro, finanzierà borse di studio per i giovani destinati a frequentare i corsi di “ preparazione politica (fascista)” vivaio prezioso per la continuità ideologica del fascismo pugliese.

L’autore iscritto all’università di Bari agli inizi degli anni ’60, si rese personalmente conto dello strapotere del fascismo universitario, gestito dal F.U.A.N. (Federazione Universitaria Nazionale ).

Ricorda i suoi metodi squadristici nell’organizzare l’attività goliardica:  dalla assegnazione delle borse di studio, alle feste universitarie.

I suoi metodi saranno considerati dai “benpensanti” baresi come semplicemente “simpatica esuberanza”.

Nel 1920 Giuseppe Caradonna da Cerignola, riferimento e braccio armato degli agrari, affiancherà il Costantino.

“I contadini analfabeti, durante il primo conflitto mondiale, erano venuti a contatto con tanti altri lavoratori più progrediti e sopratutto con una vita sociale ben diversa da quella disgregata dei loro paesi….

Tutto si prometteva allora, in particolare larghi compensi per tutte le sofferenze, e, naturalmente la terra ai contadini”  .

Conclude Chabod “I contadini smobilitati tornano a casa in preda all’eccitazione e alla febbre d’un attesa, per cosi dire, messianica.

In Puglia, epicentro della protesta bracciantile  si lotterà per “l’imponibile della manodopera : fissazione di un minimo di manodopera obbligatoria a carico dei proprietari per ogni unità di superficie”, per gli aumenti di paga e la riduzione dell’orario lavorativo a 48 ore .

Le masse contadine, a seguito delle leggi americane anti-immigratorie, non poterono più emigrare e furono costrette a lottare per l’esistenza, nei loro paesi.

ANARCHIA E PUGLIA

Nel Matese, a cavallo tra la Campania e la Puglia, nel maggio 1877, il movimento anarchico era composto, in larga parte, da contadini pugliesi già protagonisti nei moti del 1874, verificatosi nelle Murge, a Corato, Andria e Minervino.

Il meridione divenne così, nel ’19-’20 rivoluzionario, anarco-sindacalista.

E poiché la rivoluzione nel meridione vuol dire lotta per il possesso della terra, i grandi movimenti di massa si posero subito l’obbiettivo dell’occupazione delle terre incolte o malcoltivate e, anche di quelle coltivate, dai grandi proprietari.

Gli agrari reagiranno.

I fascisti si porranno come garanti del potere agrario.

Le loro azioni contro i braccianti saranno quelle “squadristiche”, in realtà operazioni militari.

SQUADRISMO PUGLIESE

“Il fascismo riuscirà a prevalere perché dispone di un fattore decisivo di superiorità sul movimento operaio: le sue possibilità di spostamento e di concentrazione di forze sono basate su una tattica militare” (Rossi).

“La spedizione punitiva parte quasi sempre da un centro urbano e si irraggia nelle campagne circostanti. Montate su camion, armate dall’Associazione Agraria o dai magazzini dei reggimenti (esercito), le camice nere si dirigono verso il luogo che è l’obbiettivo della loro spedizione.

Arrivate, cominciano a bastonare tutti coloro che incontrano per le strade e che non si scoprono al passaggio dei gagliardetti o che portano una cravatta, un fazzoletto o una sciarpa rossi…

Ci si precipita alla sede della Camera del Lavoro, del Sindacato, della cooperativa, della Casa del Popolo.

Si sfondano porte si buttano nella strada i mobili, i libri, le merci, si versano dei bidoni di benzina: qualche minuto dopo tutto è in preda alle fiamme.

Coloro che si trovano nei locali vengono selvaggiamente picchiati o uccisi…

Gruppi di fascisti vanno alla ricerca di capi: sindaco e consiglieri comunali, segretario della lega, presidente della cooperativa; s’impone loro di dimettersi, si bandiscono per sempre dal paese, sotto pena di morte o di distruzione delle loro case.

Se sono riusciti a mettersi in salvo, ci si vendica sulle loro famiglie.

Quando il dirigente locale, malgrado tutto, resiste, lo si sopprime.

Si arriva di notte davanti alla sua casa, lo si chiama, con una scusa qualunque, per non urtarsi nella sua diffidenza: appena apre la porta si scaricano le armi su di lui, lo si abbatte sulla soglia.

Spesso egli si lascia prelevare, purché si risparmino i suoi, per evitare loro il tragico spettacolo.

I fascisti lo conducono in un campo, dove poi lo si ritrova morto al mattino.

A volte si divertono a trasportarlo sul loro camion e a lasciarlo nudo, legato ad un albero, a qualche centinaio di chilometri di distanza, dopo avergli inflitto le più atroci torture” (Tasca).

In Puglia la violenza fascista selezionerà i peggiori criminali in grado di stroncare un movimento anarco-sindacalista organizzato da leader carismatici come Giuseppe Di Vittorio e Gigante.

I fascisti pugliesi “Sono la versione moderna, motorizzata o a cavallo fortemente armata e organizzata militarmente, dei vecchi mazzieri degli agrari che li finanziano e li aiutano insieme alla polizia”.

Il primo fascio si costituisce a Cerignola, ai primi del 1921,  nella sede degli agrari e li guida l’agrario Giuseppe Caradonna che durante il regime e dopo sarà il padre padrone della città di Bari.

“Anche quì i carabinieri e fascisti distruggono la Casa del Popolo.

Poi il fascismo si irradia in tutta la bassa Puglia e a Bari.

Centri di devastazione sono Minervino Murge e Corato dove il popolo assalta la sede del fascio.

Intervengono al solito le truppe, precedute dalle autoblinde, spezzando cosi la resistenza  dei lavoratori che lasciano molti morti e feriti sul terreno.

Seguirà, tra il marzo e il maggio, la distruzione delle Camere del Lavoro di Taranto, di Bari, Andria e Barletta” (Tasca).

LA RESISTENZA  ANARCO-SINDACALISTA

Nell’agosto 1922 Bari diventa il teatro di una resistenza popolare, anarco-sindacalista.

In occasione dello sciopero generale dell’agosto 1922 “I fascisti, guidati dalle squadre agrarie di Caradonna cercano di reagire con il terrorismo allo sciopero, riuscito totale in tutta la città…

Gli arditi del popolo, operai, contadini ed artigiani hanno organizzato la difesa (in Bari vecchia  hanno scavato trincee e barricate nei punti strategici) presidiano tre quarti della città e resistono ai fascisti alle guardie regie.

Nonostante l’aiuto militare e l’afflusso della “Decima legio” di Arpinati, la più temibile formazione fascista proveniente dalle Romagne, la Bari proletaria resiste.

“Bari rimarrà per tre mesi impenetrabile al fascismo e quando questo diverrà governo sarà occupata militarmente da un intera divisione di fanteria (Del Carria).

CASA ROSSA     PULIZIA ETNICA  ISTRO-DALMATA

“Quando l’etnia non va d’accordo con la geografia e l’etnia che deve muoversi (Benito Mussolini) .

Queste sono le basi della strategia per l’eliminazione dell’etnia slava in Istria e Dalmazia.

“Pochi dubbi vi sono sulla meta che il fascismo si proponeva una volta ottenuto il potere: l’integrale e rapida nazionalizzazione delle terre annesse dopo la seconda grande guerra; o la dispersione della classe dirigente croato-slovena, portatrice dell’ideologia nazionale slava.

La legislazione liberticida applicata in tutto il paese dopo il delitto Matteotti offriva la possibilità di sciogliere tutte le organizzazioni legali delle minoranze slovena e croata.

E là dove non arrivava lo “Stato” a “ripulire gli angolini” erano sempre pronti gli squadristi…

Sul piano economico il regime scompaginò l’intera rete cooperativistca e creditizia slava” (Pupo) .

“La pressione fascista determinò una migrazione di oltre centomila unità “I primi ad essere colpiti furono gli intellettuali e , in particolare, gli insegnanti, i dipendenti pubblici e i professionisti allontanati  dagli impieghi mediante la radiazione dagli albi professionali con mille stratagemmi e ancora studenti impediti a rientrare dalle sedi universitarie e insieme a loro i sacerdoti” (Pupo).

Nell’aprile 1941, dopo l’aggressione italiana contro la Jugoslavia più di cinquemila giovani provenienti dai villaggi istriani dell’interno furono rastrellati e rapidamente trasferiti nell’Italia meridionale per tenerli il più possibile lontano dall’Istria… “Messi in campi di concentramento (come quello di Alberobello).

In Istria erano rimasti pochi uomini e fra i giovani soltanto coloro che erano stati riformati per malattia o gravi imperfezioni fisiche” (Drndic).

Queste deportazioni di massa, tese alla “pulizia etnica” furono avviate dal governo italiano, in anticipo respetto a quelle balcaniche degli anni ’90.

Il regime fascista privò le famiglie istriane degli unici sostegni delle comunità nel duro lavoro dei campi.

Dopo che i contadini “Per l’eccessivo indebitamento erano stati costretti a vendere la terra per pochi soldi ai fascisti”.

Fino alla fine del primo conflitto mondiale nei paesi erano presenti la scuola croata, la Cassa di risparmio, la società giovanile e la chiesa. 

Con l’occupazione italiana tutto fu distrutto “Ora in paese esistevano soltanto la scuola italiana e la caserma dei carabinieri. I bambini erano costretti a frequentare quella scuola; alcuni maestri, avvelenati di ideologia fascista, gli parlavano con disprezzo della loro origine croata alla quale, dicevano, essi dovevano rinunciare per diventare “figli della civile nazione italiana”. Cosi, anche attraverso i bambini, i fascisti si sforzavano di seminare tra le famiglie croate il seme della discordia e del dubbio”. (Drndic) 

Nelle schede personali dei deportati istriani non c’era traccia di accuse di “terrorismo”, erano semplicemente “anti-italiani”

In base al codice fascista si contestava loro nei “decreti di arresto” il reato di “Essersi appartati   dalle manifestazioni patriottiche, di non essersi iscritti al PNF (Partito Nazionale Fascista), di essersi mostrati “contrari alle patrie istituzioni”, e di aver avuto “sentimenti slavi”. 

Il governo italiano non poteva fare a meno, per la loro notoria perizia nautica, degli istriani delle comunità costiere.

Furono dispersi nelle unità navali, sopratutto a bordo dei sommergibili.

IMPERIALISMO IN DALMAZIA

Il 19 aprile 1919 in presenza di Wilson, Clemenceau e Loyd George il governo italiano sostenne un programma di annessione della costa adriatica orientale e l’acquisimento della Dalmazia.

Le sue richieste poggiavano su indefinite ragioni storiche e, sopratutto, di ordine strategico (imperialismo) espressione di una potenza tesa alla conquista e al dominio.

Gli alleati, in quell’occasione respinsero queste pretese.

Il 15 aprile 1941 le colonne motorizzate italiane occuparono Spalato. Nei mesi a venire la spinta ideale della “redenzione” dell’italianità separata dal contesto nazionale diventò “snazionalizzazione” slava della comunità spalatina.

Dal 21 aprile si assistette ad una tempestiva e sistematica “fascistizzazione”.

Il 29 aprile, giorno di San Marco, furono esposti ovunque i ritratti del Duce. Furono chiusi e vietati le attività delle associazioni locali, fu introdotto un intero staff di ca mille funzionari addetti al controllo dell’intera attività amministrativa.

Fu sistematica la rimozione nei musei di tutto quello che non era italiano.

La reazione della collettività fu immediata perché il primo maggio in tutta la Dalmazia sventolarono migliaia di bandiere rosse.

La scuola “italianizzata” fu completamente boicottata;  si assistette a un proliferare di tipografie clandestine.

Bettiza in “Esilio” riporta le emozioni e lo sdegno di suo padre, elemento di spicco della piccola comunità italofona che esclamava infuriato “ Vogliono non solo italianizzare, ma fascistizzare col manganello, in 24 ore, migliaia di slavi… .

Non era certo l’Italia che aspettavamo noi!”

I fascisti italiani “Circondavano interi quartieri cittadini, irrompevano nottetempo nelle case – prelevavano, torturavano, e fucilavano centinaia di dalmati.

Cominciarono gli arresti in massa e migliaia di patrioti di Spalato e dell’intera Dalmazia vennero trasportati con navi sull’opposta sponda dell’Adriatico nei campi di concentramento fascisti (come Alberobello) per far posto a nuovi prigionieri”.

ALBEROBELLO LAGER ISTRO-DALMATA

Gli istro-dalmati appaiono fugacemente nella narrazione del campo di Casa Rossa, di Alberobello.

La loro presenza maggioritaria si ricava anche dal fatto che circolasse nel campo un bollettino: Sedam Dana (sette giorni) redatto sulla carte igienica.

Un deportato fiumana, intervistato, accenna alle torture subite da parte del personale del lager .

In “Campi per l’internamento civile nell’Italia Fascista” la Kersevan  pone in evidenza la persecuzione nei confronti dei deportati istro-dalmati, ai quali venne riservato un trattamento disumano non comparabile persino a quello riservato agli ebrei.

“Per gli slavi invece la situazione fu molto diversa, in quanto essi furono sottoposti ad una vera e propria pulizia etnica. In alcuni campi la popolazione civile slava fu soggetta a condizioni di vita inumane che portarono alla morte per stenti migliaia di prigionieri”.  

Erano questi “deportati” che avevano rifiutato di essere  “redenti” la materia prima del lager di Alberobello.

ALTAMURA – LAGER PER IL POPOLO ISTRIANO

Campo Profughi Altamura

Con la fine del conflitto l’infamia dei campi di concentramento in Puglia non si esaurì. Cambiarono nome e diventarono campi profughi.

Hanna Arendt rompe l’ipocrisia degli storici compiacenti  convinti che i loro governi abbiano “Assistito, sfamato e salvato da realtà disumane nei campi profughi  masse di disgraziati, vittime del secondo conflitto mondiale, naufraghi della pace”.

Ribadisce la Arendt “Sembra che nessuno voglia riconoscere che la storia contemporanea ha creato un nuovo genere di essere umani : quelli che sono stati messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici”.

La destra italiana ha strumentalizzato l’esodo proclamando il 10 febbraio “la Giornata del Ricordo”.

L’opinione pubblica italiana dirottata sulla “Vergogna delle Foibe” non è mai stata informata sulla realtà esecrabile dei campi profughi gestiti dal Ministero dell’Interno dei governi post-bellici, considerati democratici.

Raoul Pupo ex segretario della Democrazia Cristiana triestina introducendo i 120 campi profughi italiani  è costretto ad ammettere: “Le fonti di cui disponiamo concordano in genere nel descrivere il terribile impatto degli esuli con la realtà dei campi, fatta di miseria, privazione, carenze igieniche, assoluta mancanza di intimità.

Se da una parte sostiene che “La permanenza non fu breve, tanto che ancora nell’estate del 1963, 8493 esuli giuliano dalmati risultavano ospitati in 15 campi profughi dislocati su tutto il territorio nazionale”, dall’altra sostiene una verità opposta: “L’Opera Assistenza ai profughi giuliano dalmati risolse il problema del loro inserimento con  “interventi imponenti, a favore degli esuli portato a termine con efficienza e coronati da un largo successo”.

Non fu cosi perché gli esuli furono costretti, in larga parte ad emigrare oltreoceano in condizioni drammatiche.

Un esempio di campo di “internamento” fu il lager di Altamura, inferno di 31 ettari, collocati in mezzo al “nulla”.

A quattro anni dall’esodo da Pola, il 10 gennaio 1951, il governo italiano  rinchiuse, tra Altamura e Gravina,  934 esuli di cui dueterzi provenienti dall’Istria.

Nel febbraio 1952 , come risulta dal censimento effettuato all’interno del campo, erano presenti 468 polesani.

Fin dall’inizio fu considerato un entità extraterritoriale militare, pericolosa e sottoposta a regime carcerario del ministero dell’interno.

Il comune di Altamura fu completamente estromesso nella amministrazione di questa entità aliena come risulta da “Puglia dell’accoglienza”.

I padiglioni erano in pessimo stato e l’utilizzo militare del manufatto impedi i lavori di risanamento.

In 10 anni : dal 1951 al 1961, nonostante si fosse usciti dalle ristrettezze post – belliche  “non si giunse mai alla creazione di un ambiente ospitale”.

A pochi mesi dalla chiusura del campo la prefettura di Bari segnalò la desolazione del campo e specificò che era tale perché collocato “In una zona inospitale, tale da intristire e deprimere la massa dei connazionali, assistiti”.

Fu chiamato ad amministrare il campo il generale Rizzoglio un psicopatico preoccupato esclusivamente di fornire ai deportati un assistenza religiosa, ossessiva.

La vita del campo fu cadenzata dalle “molteplici celebrazioni di cresime e comunioni e visite di religiosi” preoccupati di cristianizzare e cloroformizzare questa massa disperata.

Gli esuli di Altamura erano definiti da Italo del Vecchio, nel 1956, nella “Domenica di Puglia” del 23-12, “slavi teneri” in contrapposizione degli jugoslavi del campo di Santa Chiara definiti “slavi duri”.

Gli istro-dalmati in uno stato, come l’Italia, nazionalmente compatto, sono stati considerati pericolosi e incomprensibili perché dotati di una cultura “meticcia”.

Per gli slavi teneri era previsto, a differenza degli jugoslavi, la loro permanenza in Italia

ISTRUZIONE

Nel campo le aule riservate agli alunni rimasero incompiute per anni. Erano prive di cattedre, lavagne e riscaldamento. Nel marzo del 1953 un insegnante annotava “Le giornate sono molto rigide, l’aula è fredda e umida, priva di riscaldamento. Gli scolari pallidi ed intirizziti non possono neanche scrivere. Il genere d’istruzione impartita ai piccoli esuli la si può ricavare da un frammento scolastico: il tema svolto agli esami finali dell’anno scolastico 1956/57 dal dettato “Abbiamo abbandonato la casa e siamo venuti in Italia. Siamo profughi: pure la patria che ci ospita era ed è la nostra Patria e soltanto per amore di essa che siamo diventati girovaghi, in attesa di poter finalmente rifare un focolare dove vivere ed essere utili a noi stessi ed altri ed aver ancora una volta una Patria che ci ami e ci protegga” ( saranno L’Australia e il Canada).

A questi innocenti essere umani, cresciuti in “cattività” in un modo beffardo veniva rilasciato un “pezzo di carta” a riprova del loro semi-analfabetismo e del loro destino di “paria”.

Dal 1951 era stato negato loro il “diritto allo studio” perché la richiesta di creare un corso di scuole medie “non potè essere accolta dal Ministero dell’Interno e non dell’Istruzione, per mancanza di fondi”.

L’assistenza medica ospedaliera era nulla.

Soltanto nell’imminenza della chiusura del lager la prefettura si decise di affidare l’assistenza agli esuli all’ospedale civile di Altamura.

I profughi in preda a gravi patalogie come il diabete, l’ipertensione arteriosa e le cardiopatie erano privi della benchè minima assistenza.

La loro denutrizione derivava, come sostiene Misich, da una dieta alimentare ai limiti della sopravvivenza.

RECLUSIONE SENZA SPERANZA 

Gli internati “lamentavano l’impossibilità di inserirsi nel sistema produttivo del territorio”.

Erano perciò costretti a fuggire dal campo in direzione della pianura padana.

Alla stregua di evasi si scatenava contro di loro una “caccia all’uomo” per catturarli.

L’Opera per l’Assistenza rappresentata da Emilio Rocchi si limitava ad una presenza saltuaria, in occasione delle tornate elettorali (vedi in “Requiem” il campo di Laterina).

La vicenda di Altamura è contenuta in “Puglia dell’accoglienza” in cui l’autore Vitantonio Leuzzi sostiene che “La funzione preminente della nostra regione sia stata quella di una terra di accoglienza per profughi per “vocazione”.

In altri termini si tratta di una “vocazione”. In realtà la segregazione per 13 anni ad Altamura di migliaia di essere umani ridotti a deportati, conferma che se ci fù una “pietas” da parte pugliese, partì, esclusivamente,  dalle classi subalterne.

La “nomenclatura” rimosse l’ infamia “del campo di Altamura” perché prova evidente del “fallimento di un fascismo criminale”.

A questo punto si impone un “Memorial” ad Altamura per ricordare.

EGEMONISMO FASCISTA

Puglia 1946, la guerra civile dimenticata (Silvia Veroli)

Con la conclusione del secondo conflitto mondiale la Resistenza aveva generato inizialmente nelle masse contadine l’illusione che fosse passato il tempo dei privilegi  e della corruzione.

Il ministro dell’agricoltura, Fausto Gullo, aveva elaborato “Una legislazione in grado di spezzare lo squilibrio esistente nelle campagne meridionali” (Ginsborg).

Luigi di Vittorio segretario generale della C.G.I.L. , allora sindacato unico si era posto come interlocutore autorevole per regolamentare la questione agraria.

Ma quando i comunisti italiani furono espulsi dal governo, gli agrari, sostenuti dal nuovo ministro dell’agricoltura, Antonio Segni, cancellarono le conquiste dei contadini meridionali.

Il bracciante pugliese non capì il nuovo clima e reagì tentando di coltivare il “latifondo” improduttivo.

Gli agrari, nella versione post-fascista, sostenuti dal ministre dell’interno Mario Scelba, imposero nelle campagne pugliesi e nelle “agrotown” lo “stato d’assedio”.

Alla fine del 1943 e fino alla metà degli anni ’50 serpeggiò un conflitto da guerra civile in grado di coinvolgere la totalità della regione.

Il 7 marzo 1946 ad Andria i contadini insorti furono attaccati all’interno dell’abitato dagli agrari barricati ed armati perfettamente.

All’esterno di Andria la polizia aveva circondato la città “Il risultato furono numerosi morti e centinaia di feriti”.

Gli agrari non si limitarono a sparare, ma assediarono, come già fatto agli albori del fascismo, all’inizio degli anni ’20, la Camera del Lavoro.

La borghesia  barese non si schierò con il mondo contadino.

Scelba utilizzò il battaglione San Marco per rastrellare centinaia di chilometri quadrati delle Murge e per catturare le migliaia di contadini in rivolta.

Il 29 novembre 1949 la “Celere” braccio armato del Ministero dell’Interno si accanì contro un piccolo paese dall’Appennino sauno, Torremaggiore e tutto questo perché i suoi contadini avevano osato coltivare le terre incolte. 

Centinaia di famiglie furono arrestate e i minori furono resi temporaneamente orfani e lasciati “allo sbando” .

Bari nel 1946, brulicava di “bambini , fanciulli e di giovinetti denutriti vestiti di stracci che osavano fare di tutto anche assaltare i camion militari e peggio per strappare qualcosa da mettere sotto i denti. Senza famiglia dormivano nei portoni, sui marciapiedi, sui carri abbandonati”.  

Leuzzi in “Puglia dell’accoglienza” si limita a registrare il fenomeno, ma non spiega perché questi minori erano “senza famiglia”. Non lo sfiora l’idea che fossero i figli dei “cafoni”  e cosi rimuove il ricordo e le conseguenze di una guerra civile  che ha imperversato in Puglia per anni, a cavallo degli anni ’40 e ’50.

Riporta la notizia soltanto per evidenziare la “pietas” dei padri rogazionisti  che avevano intercettato qualche decina di giovani disgraziati per controllarli in un convitto che era, in realtà, un campo utilizzato per i prigionieri di guerra, per conto delle autorità di occupazione.

Leuzzi non fa cenno dell’intervento dell’UDI (Unione donne italiane) un manipolo di donne coraggiose e determinate che si attivarono per salvare, sfamare, vestire e collocare nelle famiglie mantovane, emiliane e marchigiane, 70 mila bambini e adolescenti provenienti dal territorio meridionale.

Tra questi un folto gruppo di pugliesi come a suo tempo, nel 1961, mi aveva riferito il mio amico Antonio de Vitis , sopravvissuto al dramma  di Torremaggiore.

Aveva trascorso quasi due anni in una famiglia emiliana, fino a quando  i suoi genitori erano stati liberati dalle prigioni .

EMIGRAZIONE

Alla fine di questa guerra civile il mondo contadino pugliese fu scompaginato.

I figli delle classi subalterne e quelli della piccola borghesia furono costretti ad emigrare.

Questo fenomeno per la sue proporzioni ha sconvolto e depauperato la comunità pugliese.

“L’emigrazione si rivelò per i ceti dirigenti una “manna” e considerata “quale dura ma indispensabile necessità per l’economia italiana “(Colucci).

Il bracciante dopo aver subito l’onta del carcere per ribadire i suoi diritti, intraprende la strada dell’esilio “Lo fa di propria deliberata volontà perché non vuole più restare sulla piazza del paese intorno alla fontana” (Compagna).

Carlo Levi intellettuale torinese confinato in Lucania durante il ventennio fascista in “Emigrazione” a dimostrazione del cinismo culturale degli storici “benpensanti” esprime tutta la sua indignazione.

“L’emigrazione, con i suoi aspetti di espulsione dalle proprie radici e dalla propria terra, di rottura dei legami culturali e famigliari di esilio in paesi di costume di lingua diversi, è in se stessa un realtà drammatica, piena di infinite tragedie, sacrifici e dolori, e non può non essere sentita che come una colpa collettiva, si è sempre cercato di nascondere i veri caratteri, di considerarla come un fenomeno naturale quasi esterno alla società nazionale o di tacerne o di coprirlo con ipocrisia dei buoni sentimenti e del paternalismo assistenziale, o dei falsi miti nazionalistici del nome d’Italia e del lavoro italiano.

In queste condizioni l’emigrante forzato, dopo essere stato espulso dal proprio paese, era del tutto abbandonato, e costretto a un reale e servile esilio.

Cosi l’emigrazione, che è nei fatti servitù, condizione coloniale, sacrificio rituale, mutilazione, razzismi, che strumento di potere e mezzo di conservazione “ dell’establishment che ne ha determinato l’espulsione”.

Saranno le “rimesse” finanziarie degli emigrati ad impedire il collasso della società pugliese.

I reduci e i braccianti pugliesi furono deportati in Belgio dal governo italiano presieduto dal democristiano De Gasperi in cambio di “consistenti forniture di carbone all’Italia”.

Diventarono manodopera nelle miniere belghe e, con loro, decine di istriani già detenuti nel campo di Altamura.

In “Requiem” descrivo le vicende di quelli che pur di sfuggire al campo pugliese finirono invece nelle miniere canadesi.

Nel 1956, prima di Marcinelle, Milone, collaboratore di Salvemini, li descriveva falciati dalla “silicosi”.

Il “Sole d’Italia”, giornale di area cattolica e destinato agli emigrati  riferiva, da Bruxelles, di 600 morti all’anno e più di cinquanta minatori al mese.

E nel suo studio pubblicato nel giugno 1949 segnalava fra l’altro “La discesa nei pozzi costituiva un continuo e vero trauma perché non avevano ricevuto alcuna istruzione e preparazione.

Coloro che rifiutavano di scendere erano accusati di violazione del contratto per cui venivano arrestati, detenuti per un lungo periodo in attesa di essere rispediti in Italia”.

Nel giugno 1949, Aldo Moro, barese e sottosegretario di stato  agli esteri del governo De Gasperi, dopo la sua visita di 15 giorni agli emigrati in Belgio, Olanda, e Lussemburgo ricordò “ Gli aspetti negativi della condizione dei minatori” ma dichiarò l’impotenza del suo ministero, vista la complessità dei rapporti internazionali.

Avrebbe potuto imporre al governo belga uno standard “minimo” di sicurezza dei pozzi e l’utilizzo in miniera di martelli pneumatici con il dispositivo anti-polvere.

Scaricò sul Ministero del Lavoro, incapace di muoversi al di fuori dei confini nazionali, di risolvere il problema.

A Marcinelle l’otto agosto 1956, si verificò uno dei più terribili incidenti minerari della storia europea.

22 pugliesi, dai ventisette ai quarantasette anni, perirono. 

EGEMONISMO E FASCISMO PUGLIESE

A partire dal 1922 il fascismo ha dominato la società pugliese. Uomini come Giuseppe Di Vittorio anarco-sindacalista dotato di un carisma e di un prestigio internazionale e Vincenzo Gigante, brindisino, proveniente dal sindacalismo edile, internazionalista e vittima nelle carceri naziste di Trieste (vedi “Requiem”) e i numerosi pugliesi confinati come Donato Caiati e Nicola De Falco, hanno, inutilmente, contrastato la “marea nera” del fascismo pugliese.

Come afferma Antonio Gramsci dal carcere di Turi “Le classi dominanti impongono i propri valori politici intellettuali morali a tutta la società con l’obbiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne.

Il 21 gennaio 2005,  Nichi Vendola, ex-governatore pugliese, in occasione dell’intitolazione di una strada principale di Bari a Nicola Pende, rettore dell’università di Bari primo firmatario del “manifesto della razza” voluto dal fascismo riconosceva questa amara realtà.

“Credo che bisogna chiudere in Puglia, la stagione di una certa retorica localistica che faceva immaginare l’esistenza di un fascismo gentile rispetto al resto del regime mussoliniano.

Per l’antifascismo pugliese esiste una retorica della baresità spalmata sull’ipotesi del nostro lungomare, sulle magnificenze delle opere di regime in una neanche dissimulata volontà di rimozione delle violenze, dei delitti delle stragi, della complicità con il nazismo che anche i gerarchi fascisti qui a Bari e in Puglia portarono sulla loro coscienza”.

C’è un idea, un po’ guascona, un po’ goliardica della rievocazione di quegli anni.   

“L’anti-fascismo non può essere solo una proclamazione dall’alto, ma un recupero integrale della memoria”.

Tutto questo comporta la rievocazione delle violenze squadriste-fasciste, della deportazione degli istro-dalmati dei lager di Altamura e Alberobello e, infine, della “annichilimento” e dell’emigrazione “selvaggia” di gran parte del popolo pugliese.

Vendola si riferisce al saggista Domenico Crocco  che vede in “Araldo di Crollalanza un costruttore di futuro e considera “parte della classe dirigente fascista capace e tale da continuare a servire, alla fine del regime, l’amministrazione dello stato”.

Quando esalta i gerarchi annulla completamente le vittime, i lutti, gli esodi,  e le rovine provocati dal nazi-fascismo. 

Il Crocco si riferisce a personaggi come il dottor Donato Giangrande in sintonia con Tanio Laera in “Sindaci di Alberobello dal 1797 od oggi”.

Il dr Giangrande nasce nel 1903 da una famiglia di agrari.

Il suo apologeta Laera, lo considera un grande patriota e stabilisce che all’età di 11 anni abbia partecipato alla prima guerra mondiale, come soldato.

Sempre il suddetto soldato precoce non si sottrarrà a dare il suo contributo alla patria, durante la seconda guerra mondiale.

Anche qui il suo estimatore non lo pone sul fronte greco o russo o africano ma da primario, in ospedali “sottocasa”: quelli di Bari e di Gioia del Colle.

In realtà ha uno studio privato di dentista dove esercita, a tempo pieno l’attività.

E inoltre è podestà di Alberobello e responsabile del lager.

Nel campo vennero rinchiusi ebrei sorpresi in Italia dalle leggi razziali e detenuti, per un breve periodo, ad Alberobello perché trasferiti al campo di Gioia del Colle.

La narrazione presente in un documentario di RaiStoria del 29-12-2018 pregevole perché modulato con una professionalità di spessore è sconcertante nei suoi contenuti.

Il dottore podestà aveva trasformato alcuni dei deportati ebrei dotati di capacità professionali in “liberti” vale a dire in semi-libertà e a disposizione dei loro carnefici, per essere sfruttati.

L’odontoiatra Heinrich Fried fu impiegato dal podestà- dentista- primario nel suo studio privato e , una volta utilizzato, ricondotto a Casa Rossa nel suo ruolo di “schiavo”; oppure il celebre musicista Abeles Carlos ingaggiato da un notabile del luogo, Francesco Nardone, come maestro di musica per addestrare le “creature” del gerarca.

Anche in questo caso ricondotto nel campo, alla sua condizione di deportato.

Non sarà cosi per i contadini istriani e gli studenti spalatini.

Il dottor Giangrande, padre, padrone e podestà, al vertice di una struttura criminale, poteva benissimo “infischiarsene” del giudizio del prefetto che considerava “insolito” il suo comportamento nei confronti dei deportati.

Dopo il secondo conflitto mondiale il dottor Giangrande non è stato nè “radiato” nè “epurato”, ma come riporta Antonio Laera divenne il vero fondatore di una città pittoresca e unica, Alberobello.

Negli anni cinquanta verrà rapidamente dimenticato il suo ruolo di carceriere per quello di fondatore della DC locale e sindaco , nel 1956 di Alberobello.

Nel documentario relativo a Casa Rossa i ricercatori baresi utilizzano un metodo storico “inedito” perché fanno della “nipote” del podestà-carceriere la figura centrale da utilizzare per un definitivo giudizio storico .

Nel corso della narrazione la nipote non esita a definire suo nonno fornito di autorevolezza perché designato al ruolo di podestà fascista  da Mussolini e, comunque, più prestigioso di quello di sindaco del dopoguerra, eletto democraticamente.

Durante l’intervista i ricercatori non si rendono conto di essersi affidati ad una testimonianza ambigua e destabilizzante.

A tal punto da non porre alla nipote una domanda semplice, semplice: “Ritiene etico da parte di un medico posto ai vertici di un sistema criminale privare  della libertà essere umani e sottoporli a un regime carcerario e di tortura?”

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- 26 Febbraio 2019